pietro cavaleridi Pietro Andrea Cavaleri

1. Dal disagio della civiltà al disagio della solitudine

Accogliendo e facendo propria la visione dell’uomo già delineata dal modello antropologico darwiniano, la psicoanalisi classica legittima l’integrità dell’individuo umano a partire dalla sua corporeità, dalla sua sessualità, in particolare dalla sua pulsionalità inconscia, che nella concezione freudiana diviene la dimensione fondante dello psichismo stesso. Nella Vienna di inizio secolo, caratterizzata da paradigmi culturali estremamente rigidi e da istituzioni statali fortemente repressive, Freud mette in luce la frattura esistente tra l’uomo, colto nella sua spontanea pulsionalità, e le regole sociali, del tutto distanti dalle sue istanze individuali. 

In questo contesto culturale la teoria delle pulsioni inconsce si rivela come il riconoscimento più rivoluzionario dell’integrità individuale, della “natura” che agisce nell’uomo. La psicoanalisi si delinea come una forma di “cura” non repressiva e profondamente rispettosa della condizione umana; si profila come un tentativo molto creativo di mediare fra le tensioni pulsionali dell’individuo e le istanze culturali della comunità, pervenendo così ad un controllo delle pulsioni e ad un adattamento razionale alla realtà sociale, altrimenti impossibili.

Se Freud mostra il coraggio di accogliere il bisogno dell’uomo moderno di essere riconosciuto nella sua dimensione pulsionale ed inconscia, la psicologia umanistica americana è capace di aprirsi ad un’altra istanza moderna: il diritto di ogni uomo a realizzare se stesso e ad essere felice, il diritto ad adeguare l’assetto complessivo della società alle esigenze individuali. La cura del disagio provocato dalla civiltà non può consistere nella rinuncia consapevole e razionale, nel passaggio dal principio di piacere a quello di realtà, ma nel sostegno alla piena espressione individuale.

Con largo anticipo su altre scuole di pensiero, la psichiatria fenomenologica pone in guardia l’uomo occidentale dalle insidie dei nuovi paradigmi culturali emergenti. Di grande rilievo, a questo riguardo, sono le riflessioni di Minkowski in tema di tempo e salute mentale1. Analizzando il rapporto esistente tra tempo vissuto e sofferenza mentale, egli pone in evidenza alcuni stili di vita tipici della cultura occidentale, che comprendono in sé dal “tutto in fretta” maniacale e iperattivo al “mai più” depressivo.

Minkowski, a tale riguardo, pone in evidenza anche il vissuto isterico, in cui svanisce il tempo dell’incontro ed è precluso il tempo della comunicazione con l’altro. Nello stile “isterico” si manifesta pienamente una modalità disgiuntiva di usare il tempo per sé e il tempo per gli altri; sicchè, mentre viene meno il tempo comunitario, manca lo storicizzarsi della vita e diminuisce la coerenza della propria storia.

Nell’Europa degli anni sessanta e della contestazione, il movimento “antipsichiatrico” vedrà nel malato di mente il portatore di un disagio che appartiene ad una società malata e sosterrà la necessità di adattare la comunità al malato e non viceversa2. Il riconoscimento del diritto ad essere felici, la concezione della malattia mentale come espressione di una società coartante e disumana, dunque, rappresentano il punto culminante di un percorso attraverso il quale la psicologia del novecento accoglie e fa interamente propria la concezione dell’individuo espressa dalla cultura moderna.

Tuttavia, giunta al culmine di tale percorso, la psicologia inizia a scoprire i volti nuovi del disagio mentale, le contraddizioni aberranti di un individuo che, lasciate alle proprie spalle le euforiche illusioni della modernità, si scopre solo ed insicuro, vittima tanto dell’assenza di regole e di valori condivisi, quanto della dipendenza dagli altri e del conformismo3. Con estrema nitidezza le riflessioni di Kohut colgono il crepuscolo dell’Uomo Colpevole e delineano il nuovo profilarsi dell’Uomo Tragico, desideroso di essere riconosciuto non più nella sua pulsionalità inconscia o nelle sue istanze di integrazione, quanto piuttosto nel suo bisogno di appartenenza accogliente e rispettosa della sua individualità4.

Kohut si rende conto che la psicoanalisi classica non può più illuminare l’ampio spettro della psicopatologia umana contemporanea, né altri fenomeni psicologici che si pongono fuori dalla situazione clinica. Essa non riesce a render conto di una esistenza umana frammentata, indebolita, resa ormai discontinua. Essa non può spiegare “la lotta del paziente che soffre di un disturbo narcisistico della personalità per rimettersi insieme”5, o la disperazione senza colpa di chi scopre di non aver realizzato i modelli fondamentali e gli ideali nucleari del proprio Sé.

“La metapsicologia dinamica strutturale - sostiene Kohut - non rende giustizia a questi problemi dell’uomo, non può comprendere i problemi dell’Uomo Tragico”6. Le concettualizzazioni della teoria classica spiegano adeguatamente gli aspetti conflittuali del complesso edipico, “focolaio genetico” da cui si origina l’Uomo Colpevole e le sue psiconevrosi, ma non spiegano la psicologia del Sè frammentato (dalla schizofrenia ai disturbi narcisistici della personalità) e del Sè svuotato (la depressione priva di contenuti, il mondo privo di ideali), non riescono a cogliere i disturbi psichici e i conflitti dell’Uomo Tragico della postmodernità.

L’Uomo Colpevole vive all’interno del principio del piacere, l’Uomo Tragico va al di là del principio del piacere e delle formulazioni psicologiche di Freud per rendere conto di quella sofferenza nuova che nasce in una relazione parentale frammentata, discontinua, incapace di dare riconoscimento, di esprimere empatia, di sostenere una sana autoaffermazione del Sè. Le chiavi di lettura per comprendere la psicopatologia dell’uomo contemporaneo non vanno cercate più nella fissazione pulsionale o nelle diffuse deficienze dell’Io, ma nel contesto di una relazione parentale deficitaria, nelle risposte empatiche gravemente disturbate dei genitori. E’ nella dimensione relazionale che va cercata adesso l’origine di un Sè debole e frammentato, il quale solo allo scopo di difendersi si volge a mete di piacere. 

I contributi di Kohut segnano uno degli apici di quella che è stata definita “la svolta relazionale” in ambito psicoanalitico7. Questa importante “svolta”, a cui hanno dato un decisivo contributo autori come Fairbairn, Sullivan, Fromm, Horney, Balint, Kohut e, in ambito evolutivo, Klein, Mahler, Stern ed altri ancora, costituisce un importante cambiamento nel modo di concepire la vita mentale dell’uomo. Alla luce della “svolta relazionale”, infatti, essa non viene più concepita come un evento puramente intrapsichico, espressione di una monade “autonoma”.

La prospettiva marcatamente individuale della psiche viene superata a favore di una prospettiva decisamente interpersonale, elaborata dai teorici delle relazioni oggettuali e della psicologia del Sé. In questo cambiamento di paradigma, la relazione non è soltanto il luogo significativo all’interno del quale poter esprimere le proprie emozioni, così come aveva intuito la psicologia umanistica, ma diventa qualcosa di molto più importante e cioè lo spazio fondamentale da cui nasce la mente umana.

L’apertura ad un paradigma relazionale in psicologia non è dovuto solo agli apporti degli psicanalisti “revisionisti”, ma anche ad altri contributi come quelli espressi in modo significativo da Bateson8, dall’approccio sistemico-relazionale9 e da quello cognitivista10. Un particolare impulso in questa direzione è stato dato anche dagli ultimi sviluppi della psicoterapia della Gestalt che, partendo dal concetto di contatto inizialmente elaborato da Perls, hanno efficacemente sottolineato come la relazione organismo-ambiente sia, fin dalla nascita, il “luogo” e l’origine di ogni evento psichico. Alla luce di tale concezione, la stessa vita mentale non prorompe dall’interno, come espressione di oscuri e inconsci dinamismi intrapsichici, né dall’esterno, come reazione a specifici stimoli ambientali, ma nasce dall’interazione costante tra l’organismo e il suo ambiente11.

L’importante passaggio da un paradigma intrapsichico ad uno relazionale è dettato, in psicologia, dalla necessità di comprendere e curare, con strumenti più adeguati, le nuove forme di disagio espresse dall’uomo contemporaneo e rispetto alle quali le precedenti teorizzazioni della psicoanalisi classica e della psicologia umanistica sono apparse limitate.

L’uomo di oggi, quello che emerge da una società complessa e globalizzata, da una cultura occidentale ormai frammentata, orfana dei grandi sistemi filosofici e religiosi, da una comunità resa instabile da legami interpersonali “liquidi” e discontinui, è un nuovo tipo di uomo, diverso da quello moderno, con caratteristiche e modelli comportamentali del tutto inediti, è l’individuo postmoderno12.

2. I “nuovi sintomi” ovvero l’impossibilità di realizzarsi senza l’altro

La definitiva liberazione da ogni forma di coartante appartenenza e l’esaltante affermazione dell’autonomia individuale contraddistinguono la “società narcisistica” descritta da Lasch13. Ma è proprio all’interno di una comunità disgregata, dove nessuno controlla nessuno e nessuno si prende cura di nessuno, che diventa impossibile ricevere conferma della propria identità e della propria differenza. In una società frantumata, dove il legame con l’altro sfuma sino a scomparire del tutto dall’orizzonte individuale, la realizzazione di sè diventa drammatica e impossibile14.

Il diritto ad asserire la propria soggettività, a perseguire la propria autorealizzazione, diventa una sfida dolorosa e frustrante. L’individuo trova una insormontabile difficoltà ad inserire il proprio punto di vista in un progetto comune, che possa essere condiviso dall’altro, dalla famiglia, dalla città. Se l’uomo teorizzato da Freud soffre il disagio prodotto da una civiltà che lo coarta, imponendogli la rinuncia al soddisfacimento delle proprie pulsioni; l’uomo disvelato dalla psicologia contemporanea si scopre orfano di un altro che lo possa riconoscere, dolorosamente incapace di stabilire un legame significativo e duraturo con la famiglia e con la comunità.

Egli si confronta, adesso, con un disagio che non scaturisce più dal carattere repressivo e morale della civiltà, quanto piuttosto da una spinta coatta al godimento, al consumo inappagante e vuoto delle cose, che rende difficile la costituzione della sua soggettività individuale e il pieno accesso all’autorealizzazione.

L’iperattivismo, una vita sessuale priva di regole, il ricorso a vari tipi di droga e all’alcool, i disturbi dell’alimentazione, la violenza, apparentemente gratuita e immotivata, appaiono come una inclinazione compulsiva all’agire, che è tipica dell’uomo contemporaneo e che rimanda al quadro clinico della “personalità borderline”15. Una personalità, quest’ultima, a base della quale è un narcisismo al contempo grandioso e patologico, tale da impedire ogni effettivo avvicinamento all’altro. Il senso di vuoto, le “angosce di separazione” e le “angosce di intrusione”, che la contraddistinguono, non trovano alcun riscontro nella clinica classica delle nevrosi16.

L’esperienza traumatica dell’indifferenza e dell’abuso, prodotta dall’adulto, costituisce una costante sempre più diffusa dell’infanzia di oggi. L’esisto del trauma è spesso una “paralisi” cognitiva e affettiva, che rende difficoltoso l’accesso alla funzione simbolica e impedisce la possibilità di elaborare rappresentazioni adeguate di sé e dell’altro17. Questa “debolezza del registro simbolico” sembra costituire uno degli elementi più ricorrenti, che accomuna fra loro i nuovi sintomi espressi dall’uomo contemporaneo18.

Appare evidente che, fin dalle prime fasi dello sviluppo, la capacità del soggetto di attribuire significato alle sue emozioni, di rappresentare la sua realtà, di simbolizzare le sue esperienze, dipenda dalla presenza e dalla risposta dell’altro, dalla qualità della relazione e della comunicazione che tra i due intercorre19. Il senso di non esistenza, di irrealtà, di vuoto, che deriva dall’assenza dell’altro, la mancanza di valori o ideali che con lui si sarebbero potuti condividere, sembrano porsi all’origine delle molteplici forme di dipendenza oggi esistenti20. In qualche modo è possibile affermare che l’oggetto della dipendenza non solo sostituisce per il consumatore un altro che non c’è o che è doloroso raggiungere, ma gli consente di acquisire una identità che altrimenti non riuscirebbe mai ad assumere nell’attuale contesto sociale21.

L’oggetto della dipendenza, dunque, diventa fonte dell’identità ed elemento di compensazione immaginaria della frustrazione derivante dall’assenza o dalla presenza inadeguata dell’altro. Dove tale evidenza si esprime maggiormente è forse nei disturbi alimentari. Fin dalla nascita l’incontro con il cibo costituisce per il bambino l’incontro con il primo dono ricevuto dalla madre, rappresenta il rapporto stesso con l’altro22. E’ facile, allora, intuire come il rapporto disturbato con il cibo sia per l’uomo contemporaneo fortemente speculare al rapporto disturbato con l’altro. 

E’ l’assenza dell’altro, la scomparsa di ogni riferimento, simbolico e reale, all’altro che spinge l’individuo all’autoriferimento, ad una esasperante attenzione verso il proprio corpo non solo sul piano estetico, ma anche su quello del “godimento”. Venuto meno l’altro, cessata ogni possibilità di essere gratificati dalla relazione con l’altro, di “godere” della sua presenza, all’uomo di oggi non rimane che esasperare, fino alla patologia, ogni forma di “godimento” che proviene dalla propria esistenza corporea. Non di rado, poi, la smisurata concentrazione sul proprio corpo fa percepire la propria vita come posta fuori da ogni contenimento, senza limiti e senza controllo. E’ questo l’inizio di una esperienza molto diffusa, quella del panico 

Se nell’angoscia nevrotica il soggetto sperimenta la pressione esercitata dal limite, nel panico egli soffre la perdita del limite e lo sgretolarsi del legame23. Il fatto che l’individuo abbia sciolto ogni vincolo che lo univa alla comunità, ai suoi riti, ai suoi ideali, per un verso lo ha definitivamente liberato dall’obbligo e dal controllo, ma per un altro verso lo ha spinto nella direzione di una struggente deriva, fatta di solitudine e di isolamento, dove è impossibile proteggersi dall’angoscia e dall’insicurezza. 

Nell’epoca della postmodernità, in cui l’altro sembra essersi eclissato  e la famiglia è divenuta evanescente, gli attacchi di panico sono l’espressione di una vita che si scopre priva di argini capaci di contenerla e di rassicurarla. Ciò che, dunque, si nasconde dietro l’attacco di panico è una drammatica richiesta di relazione per ricostruire quell’appartenenza costituiva di ogni identità integra e piena”24.

Il disagio psichico prodotto dagli attacchi di panico, e in generale dai “nuovi sintomi”, costituisce allora una sorta di “appello alla relazione”25, di richiamo ad una esperienza relazionale in grado di integrare creativamente i due bisogni costitutivi dell’essere umano: quello di realizzarsi, di essere pienamente se stesso, e quello di appartenere, di vivere-con-l’altro26. Colto nelle sue molteplici forme, il disagio psichico dell’uomo contemporaneo esprime il clamoroso fallimento della sua capacità di comporre in modo creativo queste due spinte fondamentali, sicchè egli o annulla l’autoaffermazione o si priva dell’appartenenza27.

In quella che è stata definita “la società narcisista”, l’uomo ha imparato a muoversi liberamente, seguendo la logica dell’autosufficienza e dell’autoaffermazione, superando i sensi di colpa verso l’attenuarsi dei legami affettivi. Successivamente, nella società post-narcisista di questi ultimi anni, l’uomo ha sperimentato non solo la difficoltà di costituire la propria identità in una società fatta da individui isolati, ma anche il disorientamento di porsi, senza adeguate competenze relazionali, di fronte ad un mondo complesso, ricco di potenzialità ed attrattive, ma al contempo inavvicinabile e inaccogliente28.

La comparsa, nel mondo occidentale, dell’Uomo Tragico e l’emergere incalzante dei “nuovi sintomi” hanno dimostrato con tutta evidenza come l’individuo non possa autorealizzarsi né affermando sé contro l’altro, né asserendo sé senza l’altro. La costituzione della sua identità e la piena realizzazione di se stesso sono possibili soltanto all’interno di quell’alveo vitale e nutriente che è la relazione con l’altro. Non a caso l’uomo relazionale costituisce oggi il modello antropologico di riferimento che, come abbiamo visto, viene delineato da gran parte della psicologia contemporanea.

In questo confuso inizio di millennio, dunque, la ricerca psicologica ricorda all’uomo come la sua possibilità di realizzarsi in contrapposizione all’altro o senza l’altro sia clamorosamente fallita e indica per lui la necessità di inventare nuovi paradigmi culturali che sappiano integrare, in una inedita dinamica di reciprocità, la realizzazione di sé con quella dell’altro. Quest’ultimo (l’altro, la comunità, lo straniero, il diverso ecc.) cessa, allora, di essere per l’individuo una presenza minacciosa  o castrante e si profila, invece, come termine di riferimento indispensabile per la sua stessa fondazione e per la sua reale manifestazione.

3. Dall’homo natura all’homo reciprocus: i nuovi percorsi dell’autorealizzazione

L’orizzonte, che si dischiude a partire dall’uomo relazionale, contiene al suo interno importanti acquisizioni, che la ricerca psicologica sta in questi anni ulteriormente sviscerando e ponendo a fuoco. E’ il caso, ad esempio, di quegli studi che mettono in rilievo la dinamica della reciprocità nell’esperienza relazionale. Infatti, non soltanto la relazionalità in quanto tale, ma soprattutto la relazione di reciprocità sarebbe all’origine della mente umana, costituirebbe il fondamento della salute psichica e la condizione indispensabile per il pieno realizzarsi della personalità individuale.

La relazione madre-bambino descritta da Stern è tutta incentrata sul loro reciproco implicarsi, riconoscersi, “sintonizzarsi”29. Surrey, Kaplan e Jordan teorizzano, in ambito clinico, il concetto di empatia mutua, sostenendo che in ogni uomo non esiste soltanto il bisogno di essere capiti (bisogno di empatia), ma anche quello di capire, di essere cioè empatico verso gli altri30. Beebe, Jaffe e Lechmann, conducendo importanti ricerche sulla comunicazione diadica nella prima infanzia, ne descrivono le dinamiche in termini di “regolazione mutua”, “mutuo riconoscimento”, “relazioni reciproche”31.

I nuovi sviluppi della psicoterapia della Gestalt teorizzano la necessità che di inscrivere l’autoregolazione dell’organismo in un principio ancora più comprensivo, vale a dire l’autoregolazione della relazione; sicchè non è l’organismo ad autoregolarsi, quanto piuttosto la relazione che si sviluppa tra gli interagenti32. Bruner sottolinea come il riconoscimento reciproco sia una esperienza indispensabile per la nascita e l’evoluzione del Sé. Narrandosi e ascoltando le altrui narrazioni, riconoscendo l’altro ed essendo da lui riconosciuto, l’individuo trova l’accesso alla propria identità soggettiva, al proprio Sé e modifica in modo vitale il sistema culturale a cui appartiene33.

Fonagy e il suo gruppo di ricerca hanno indagato la natura della mente umana, esaminando la stretta interdipendenza esistente tra la comprensione di sé e quella dell’altro. Una relazione di reciprocità ben regolata col caregiver crea nel bambino un senso di Sé autonomo e robusto, producendo effetti positivi che si estendono anche sulla vita adulta. La reciprocità, o regolazione reciproca, è all’origine dei processi di “mentalizzazione” e della comparsa della “funzione riflessiva”. Un bambino, che può rispecchiarsi positivamente nel caregiver, diviene capace di concepire il pensiero altrui e di attivare una adeguata rappresentazione di sé34.

Le ricerche e le teorizzazioni, appena fugacemente accennate, confermano come, sul piano antropologico, la matrice relazionale della reciprocità delinei un nuovo modello di uomo che, con un neologismo già in uso35, potremmo chiamare homo reciprocus. Si tratta di un uomo che conosce se stesso, si identifica con se stesso soltanto se qualcuno, un altro, lo vede, lo riconosce, lo individua. Egli, tuttavia, può sentirsi visto, riconosciuto e individuato se, a sua volta, è in grado di vedere, riconoscere e individuare l’altro.

E’ da questo denso intreccio, fatto di mutua identificazione, che trae origine la mente umana, da esso scaturisce il benessere psichico di ciascun uomo ed è reso possibile l’attuarsi delle sue potenzialità. Si potrebbe affermare che se l’homo natura36 , tracciato a forti tinte da Freud, recupera e legittima le forze della natura che, con misteriosa e inconsapevole irruenza, agiscono in ognuno di noi, l’homo reciprocus, delineato dalla psicologia contemporanea, recupera e legittima la dimensione relazionale, da cui soltanto può nascere e acquisire significato ogni singolo individuo.

L’homo reciprocus, che la psicologia consegna alla cultura di oggi e alla civiltà del nuovo millennio, esprime e realizza se stesso aprendosi ad una dinamica relazionale nella quale l’io e l‘altro si implicano a vicenda, si scoprono “co-costruttori” e fruitori di un benessere comune, unico e indivisibile. Si tratta di una acquisizione che già la cultura greca aveva in parte intuito quando, con Aristotele37, asseriva che la felicità non può in alcun modo essere una esperienza solitaria. Si tratta di un assunto antropologico che, fin dalle sue origini, il cristianesimo ha fatto interamente proprio, concependo l’uomo come riflesso di un Dio Trinità38, in definitiva di un Dio Relazione39.

Oggi, dopo la legittima affermazione della dignità individuale espressa dalla cultura moderna, è forse giunto il momento di andare oltre l’imperativo kantiano. Se ieri, con forza e lucida intelligenza, Kant esortava all’assoluto rispetto della dignità di ogni uomo, inteso come fine e mai come mezzo; nel tempo attuale occorre affermare, con altrettanta decisione e con lungimiranza, la necessità del reciproco riconoscimento di una tale dignità, sia come spazio di realizzazione della persona, che come esperienza da cui soltanto può trarre significato l’essere e l’agire individuale40.

L’homo reciprocus, disvelato dalla psicologia, rappresenta un chiaro contributo in questa importante direzione. Esso, infatti, esiste come soggetto individuale unicamente in forza del riconoscimento che riceve da altri e che ad altri concede. La scelta di aprirsi alla relazione con l’altro, nell’intensa e vitale dinamica del reciproco riconoscimento, costituisce per l’uomo di oggi la chiave di volta necessaria per realizzare autenticamente se stesso. La “scelta relazionale” non rappresenta per lui una opzione fra le tante possibili, ma un orientamento decisivo da cui può dipendere il suo stesso futuro.


1 Cfr. E. Minkowski, Il tempo vissuto, tr. it., Einaudi, Torino 1971. 
2 Cfr. R.D. Laing, L’Io e gli altri, tr. it., Sansoni, Firenze 1969 ; R.D. Laing, A. Esterson, Normalità e follia nell
famiglia, tr. it., EinaudiTorino 1970.
3 Cfr. G. Salonia, Dialogare nel tempo della frammentazione, in F. Armetta, M. Naro (a cura di), Impense adlaboravit, Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo 1999, pp. 571-585.
4 Cfr. H. Kohut, La guarigione del Sè, tr. it., Boringhieri, Torino 1980. 
5 H. Kohut, op. cit., p. 211. 
Ibidem 
7 Cfr. S.A. Mitchell, Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2002.
8 Cfr. G. Bateson, Verso una ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976.

9 Cfr. P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana. Studi dei modelli interattivi
delle patologie e dei paradossi, tr. It., Astrolabio, Roma 1971. 
10 Cfr, V.F. Guidano, Il Sé nel suo divenire. Verso una teoria cognitiva post-razionalista, tr. it., Bollati Boringhieri,
Torino 1992. 
11 Cfr. M. Spagnuolo Lobb (a cura di), Psicoterapia della Gestalt. Ermeneutica e clinica, Franco Angeli, Milano 2001; 
M. Spagnuolo Lobb. G. Salonia, A. Sichera, Postfazione, in F. Perls et al.Teoria e pratica della Terapia della Gestalt,
op. cit.  
12 Su questo argomento cfr. Z. Bauman, Voglia di comunità, tr. it., Laterza, Roma-Bari 2003; Amore liquido, tr. it., 
Laterza, Roma-Bari 2004; J.F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981; G. 
Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985. 
13 Cfr. C. Lasch, La cultura del narcisismo, tr. it., Bompiani, Milano 1981. 
14 Cfr. G. Salonia, Dialogare nel tempo della frammentazione, op. cit. 
15Cfr. O. Kernberg, Sindromi marginali e narcisismo patologico, Boringhieri, Torino 1978; Disturbi gravi della personalità, Bollati Boringhieri, Torino 1997. 
16 Cfr. A. Green, Psicoanalisi degli stati limite. La follia privata, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1991; Idee per una psicoanalisi contemporanea, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2004.

17
 Cfr. P. Greenacre, Studi psicoanalitici sullo sviluppo emozionale, tr. it., Martinelli, Firenze 1979.
18 Cfr. L. Brusa Il trauma nella clinica psicoanalitica, in D. Cosenza, M. Recalcati, A. Villa (a cura di), Civiltà e disagio. Forme contemporanee della psicopatologia, Bruno Mondadori, Milano 2006, pp. 58-92. 
19 Cfr. G. Liotti, Le opere della coscienza, Raffaello Cortina, Milano 2001.  
20 Cfr. R. Pozzetti, Teorie dell’alcolismo e delle tossicodipendenze, in D. Cosenza et al. (a cura di), Civiltà e disagio, op. cit., pp. 131-163. 
21 Cfr. F. H. Freda,Psicoanalisi e tossicomania, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2001. 
22 Cfr. D. Cosenza, L’obesità nelle nuove forme del sintomo, in D. Cosenza et al.(a cura di), Civiltà e disagio, op. cit., pp.227-254; J. Lacan, Libro IV. La relazione d’oggetto, tr. it., Eunaudi, Torino 1996.
23 Cfr. M. Focchi, Gli attacchi di panico, in D. Cosenza et al. (a cura di), Civiltà e disagio, op. cit., pp. 195-226. 
24 G. Salonia, Cambiamenti sociali e disagi psichici, in G. Francesetti (a cura di), Attacchi di panico e postmodernità.
La psicoterapia della Gestalt fra clinica e società, Franco Angeli, Milano 2005, p. 47. 
25 Cfr. A. Sichera, Un confronto con Gadamer: per una epistemologia ermeneutica della Gestalt, in M Spagnuolo Lobb (a cura di), Psicoterapia della Gestalt. Ermeneutica e clinica, op. cit., pp. 17-41.  
26 Cfr. G. Salonia, Sulla felicità e dintorni, Argo, Ragusa 2004.
27 Cfr. G. Salonia, Disagio psichico e risorse relazionali, in “Quaderni di Gestalt”, n° 32/33, 2001, pp. 13-22. 
28 Cfr. G. Salonia, Cambiamenti sociali e disagi psichici, op. cit. 
29 Cfr. D. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1987.  
30 Cfr. J.L. Surrey, A.G. Kaplan, J.V. Jordan, Empathy rivisited, in Work in progress, Stone Center, Wellesley 1990. 
31 Cfr. B. Beebe, J. Jaffe, F.M. Lechmann, A diadic system view of communicatio, in N.J. Skolnick, S.C. Warshw (a
cura di), Relational perspectives in psychoanalysis, The Analitic Press, Hillsdale 1992. 
32 Cfr. G. Salonia, Cambiamenti sociali e disagi psichici, op. cit.
33 Cfr. J. Bruner, La ricerca del significato, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1992. 
34 Cfr. P. Fonagy, M. Target, Attaccamento e funzione riflessiva, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2001. 
35 Cfr. E. Pulcini, L’individuo senza passioni, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 
36 Cfr. P. Balestro, Introduzione all’antrpoanalisi, Bompiani, Milano 1976; L. Binswanger, Essere nel mondo, tr. it., 
Astrolabio, Roma 1973. 
37
 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, Rusconi, Milano 1979.
38 Cfr. K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento del pensiero cristiano, tr. it., Città Nuova, Roma
1996.
39 Cfr. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, tr. it., Queriniana, Roma 2005.
40 Cfr. P. Coda, Sulla logica trinitaria della verità cristiana, in “Nuova Umanità”, 2005, n.157, pp. 57-75; G.M. Zanghì,
La città: Babilonia o Gerusalemme?, in “Nuova Umanità”, 2006, n.167, pp. 513-517.

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