altUn viaggio attraverso l’arte
D.ssa Antonella Tissot
Dirigente Psicologa-Psicoterapeuta
Docente Scuola di Specialità Università Milano-Bicocca e
D.U.F. Università Statale di Milano


Per conoscere l’uomo basta studiare se stessi; per conoscere gli uomini bisogna viverci in mezzo.

Sthendal   Journal

Nell’attuale società dove gli scambi economici   sono velocizzati  dalla moderna tecnologia  e la comunicazione è facilitata grazie ad internet  assistiamo, paradossalmente, ad un impoverimento  delle relazioni  e ad uno svuotamento del senso del vivere.

Nel villaggio globale dove è noto che il 75 % delle persone che vi abitano non dispone dei beni essenziali per la vita, dove la dimensione dell’altro sembra essere tramontata, ci si chiede se sia ancora possibile essere felici. Le risorse personali, della singola comunità locale e dei gruppi sociali non vengono valorizzate abbastanza, l’incontro con l’altro è spesso inibito, l’autorealizzazione e’ resa sempre più difficile.

Pascal Breckner sostiene che la modernità nasca dall’acquisizione del benessere, spesso identificato con la felicità; benessere per il quale si è disposti a rinunciare a tutto, fino anche alla propria libertà.

Ma allora come si spiega che proprio oggi l’uso di ansiolitici e psicofarmaci sia così diffuso e il disagio psicologico e sociale così manifesto?

Forse il concetto distorto e tirannico di felicità , come un      benessere    accessibile  a   tutti  e democraticamente condivisibile ci rende insensibili, ciechi di fronte al dolore, allergici alla malattia, alla vecchiaia e alla morte.

L’uomo, sempre più solo ed errante  ma desideroso di stare in comunione con gli altri, stenta a ritrovare la propria missione nel mondo.

La malattia, ridotta ad un fenomeno individuale, lo aliena dalla sua comunità, lo estranea lo rende diverso, irraggiungibile.

L’  ormai nota metafora di Bauman sulla società liquida, nella quale i modelli sociali mutano repentinamente, ci  mette in guardia dallo spettro dell’esclusione.

“ Sembra di vivere in un universo di Escher, (Bauman ) dove nessuno, in nessun punto è in grado di distinguere una strada che porta in cima, da una china discendente…Le identità sono vestiti da indossare e mostrare , non da mettere da parte e tenere al sicuro.”

In questo senso, l’esperienza di comunità è spesso vissuta, più che come uno stare con gli altri all’interno di una relazione di condivisione,  come  una  mancanza, una “manque  à   être”,  parafrasando  Lacan, una “ pure manque”.

Il cum-munus che etimologicamente richiama la comunità, porta con sé la  mancanza del “proprio”, l’inafferrabile, il niente che svuota l’individuo della sua identità, allontanandolo dall’alterità .

 La paura di perdere parti di sé, di vedere annebbiati i propri confini protettivi, di confondersi in senso fusionale con gli altri, rende l’uomo diffidente e lontano anche da se stesso.

Psicologi, psichiatri e psicoterapeuti si trovano oggi impegnati più che mai a rispondere a questo grido di aiuto con un atteggiamento duttile, aperto al dialogo, al confronto e alla relazionalità.

Infatti, è ormai noto che il fare esperienza insieme al paziente della propria dimensione umana in  un’  “interazione dialogica” (Jung), costituisca il principale fattore di guarigione.                                                     

“Né la psiche né il mondo possono essere ingabbiati in una teoria”, perché ciò che conta, sostiene Jung “ è la personalità del terapeuta che non è uno schema dottrinario, ma rappresenta il massimo risultato da lui raggiunto.”

La nostra sfida, dunque, come terapeuti, consiste nel sentirci sempre anche un po’ pazienti di noi stessi, non scivolando, tuttavia, nei vicoli ciechi dell’impotenza e dell’autocommiserazione, nel dogmatismo che ci rende terapeuti freddi, ma nel ricercare nuovi modelli, paradigmi della relazione, metafore dello star bene con sé e con gli atri, perciò dunque  anche della cura e della guarigione.

Qualche tempo fa, un mio  giovane paziente psicotico durante una seduta  mi riferì di sentirsi svuotato, inesistente, come se fosse  un fantasma. Ma mi sorprese quando disse, non del tutto certo che io lo avessi compreso, di sentirsi “ senza anima”.

Allora pensai che il non percepire il senso del sé, facesse sentire quell’uomo malato.

La sua esperienza di disagio partiva proprio da quel senso profondo di vuoto.

Il sentirsi senza anima disorienta perché fa mancare il principio che determina l’esserci  del  corpo

( l’entelecheia aristotelica ) ma anche il soffio che da’ la vita (elan),l’interiore che si contrappone alla maschera( Jung),  il mistero dell’essere soli con se stessi ma anche sempre in relazione con altri.                                                        

 L’uomo, che per  sua natura  ha bisogno di sapere che lascerà una traccia dopo di sé e che questa inciderà nel mondo, si è da sempre interrogato sul senso della vita e sulla sua missione.                                                              

E tanto  più  lo farà quando si sente malato.                                                                         

Un’altra  mia paziente, dopo una seduta carica di  immagini  e di emozioni mi chiese di offrirle una parola magica; quella che, secondo lei,  l’avrebbe potuta sostenere nel dolore e accompagnare nella solitudine.

Fu  quello il momento in cui anch’io, come un guaritore-ferito, avvertii la mia impotenza e sentii la necessità di venire a contatto con le mie parti più profonde, quelle spirituali e nascoste.

La maggior parte delle nevrosi, ricorda Jung, deriva da una mancata ricerca della propria spiritualità, dell’elemento mancante.

Quell’elemento in grado di completarci e che “ possiamo trovare se tutto il resto fallisce”. (Kreindher).

 E lì che posso affiancare l’altro nel recupero della sua Lebenswelt ( Husserl ), perché è proprio lì che posso rivisitare, innanzitutto, gli avvenimenti della mia vita.

Seguire la propria missione richiede, allora, un cammino.  Sendung, nelle lingua tedesca, ha la stessa radice di Sinn  ( il senso ) e di Reisen ( il  camminare).

Dunque,  trovare il senso ci fa mettere in cammino e il viaggio spesso doloroso che noi intraprendiamo con i pazienti in terapia, aiuta loro ad uscire dalle trappole emotive della depressione, dell’ansia, dei sensi di colpa, dell’aggressività inibita o rabbiosa e aiuta noi a sentirci sempre meno onnipotenti.

Ci incoraggia ad occuparci anche di noi ( il verbo guarire in italiano ha una forma intransitiva ed una transitiva), a “rimetterci” , sia nell’accezione più comune della stare  meglio , che nel rimettersi alle cure di altri, l’affidarsi a qualcuno, così come al saper perdere.

E’ risaputo che lo sguardo di Medusa pietrifica.

Ma l’esperienza psicoterapeutica ci insegna  anche che è possibile salvarsi da tale sguardo. Per esempio affrontandolo da una nuova posizione, come fece Perseo che con l’aiuto di uno specchio, riuscì a rivolgere il suo sguardo su Medusa senza essere da lei visto.

L’uomo che ha il coraggio di guardarsi, che non ha vergogna di sé, che non si sente nudo di fronte al suo disagio, che non teme lo sguardo pietrificante di Medusa, trova la ragione del suo  stare con gli altri  abbandonando le pericolose identificazioni proiettive, le idee di minaccia persecutoria o le posizioni depressive. ( Klein)

E’ questo il paradigma della relazione di cura cui piace riferirmi.

Relazione cioè che non si abbandona  alla fantasia illusoria di abolire il limite, chiudendo falle e piaghe, ma che avvia un processo di guarigione proprio a partire dalle ferite stesse.

Perché anche noi, come Esculapio, Dio della medicina, abbiamo delle ferite incurabili.

Anche noi siamo degli operatori cronici non solo perché  a contatto con le sofferenze dei pazienti ma perché noi stessi  siamo, a volte, svuotati di senso .

Siamo cronici per la ripetizione di atti ; ci sentiamo anche noi, a volte, senza anima; siamo cronici nella fatica di aiutare il paziente a dare un senso alla sua vita e al suo soffrire; siamo cronici perché stentiamo a  trovare un contenitore adeguato al dolore dell’altro;  siamo cronici, infine, nell’essere condannati, un po’ come  Sisifo, a ripercorrere con i pazienti la faticosa salita con un macigno sulle spalle per depositarlo in cima ad una montagna e ritrovarcelo, talvolta, di nuovo a valle, senza essere stati in grado di attribuire un senso a tutto ciò.

Abbiamo tutti il nostro bel macigno da portare : siamo tutti pazienti, almeno di noi stessi.

In questo paradigma relazionale  la presa in carico del terapeuta non si traduce in un sapere intellettuale, in una  ricerca sterile di cause , di argomentazioni filosofiche ed ermeneutiche sul vivere del paziente, ma nella capacità di mettere in dubbio anche il proprio sapere preconcetto e la propria salute.

Esercì, dunque, l’essere con lui, l’incontrare l’altro per stare insieme, in comunione, anche se ciò comporta lo svelamento doloroso  della propria dimensione umana, dunque del limite.

L’importanza del guardarsi dentro, così centrale nel percorso terapeutico e spirituale di ciascuno di noi, terapeuta o paziente, il conoscere se stessi per capire le origini delle proprie inquietudini, la ricerca di un’armonia con sé e con il mondo, ci fa dire con Seneca: “ Infelice quel re che, tristemente noto ad ognuno, muore sconosciuto a se stesso.”

                    
 

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