di Vera Araújovera araujo

Questa mia breve relazione avrebbe un obiettivo ambizioso e, allo stesso tempo, umile, perché consapevole di poterlo realizzare solo in parte. Vorrei tentare di evidenziare e anche dischiudere alcuni elementi del modello antropologico che lo scritto di Chiara Lubich – La risurrezione di Roma - contiene e “nasconde”. Perché, come lei stesa asserisce, si tratta di “aprire un nuovo umanesimo”, che consenta agli uomini e alle donne della modernità, non solo di affrontare le nuove sfide con cui devono misurarsi, ma soprattutto di compiere un salto qualitativo di crescita e di maturazione nel processo di umanizzazione.

E’ ovvio che potrò indicare solo qualche carattere di questo nuovo tipo di uomo che si va delineando e di cui la Lubich offre una interessante e affascinante visione ontologica ed esperienziale, non solo in questo scritto ma nella sua intera dottrina.

Si tratta di riflettere sulla persona in relazione. Operazione che ci porta ad assumere  un atteggiamento intellettuale di grande rispetto perché ci troviamo dinanzi ad una realtà avvolta in qualche modo nel “mistero” e che può essere compresa solo da molteplici prospettive: spirituale e mistica, teologica, psicologica, antropologica, filosofica, sociologica, e così via.

Dire persona, significa dire essere autonomo, unico e irrepetibile, dotato di ragione e, allo stesso tempo, essere-con gli altri, vuol dire in definitiva essere-in-relazione. La persona reca in sé una spinta esistenziale verso i suoi simili. Essa è un nodo di bisogni, pulsioni, tendenze, desideri e aspirazioni, che formano un insieme organico, articolato e dinamico, fondamentale per la vita di ognuno.

Horkheim e Adorno in una serie di lezioni alla Scuola di Francoforte, così si esprimono:

«Affermando che la vita umana è essenzialmente e non solo casualmente convivenza, si rimette in questione il concetto di individuo come attore sociale ultimo. Se nel fondamento stesso del suo esistere l’uomo è attraverso altri, che sono i suoi simili, e solo per essi è ciò che è, allora la sua definizione non è quella di una originaria indivisibilità e singolarità, ma piuttosto quella di una necessaria partecipazione e comunicazione agli altri. Prima di essere-anche-individuo, l’uomo è uno dei simili, si rapporta ad altri prima di riferirsi esplicitamente a se stesso, è un momento delle relazioni in cui vive prima di poter giungere eventualmente ad autodeterminarsi. Tutto ciò viene espresso nel concetto di persona (…)».

Mi sembra di cogliere qui un nodo fondamentale nella storia e nella comprensione del mistero dell’essere umano. Come coniugare identità e socialità? Da dove deriva questa ontologica necessità di Ego verso Alter? Come è possibile l’armonia di queste due tendenze che nella vita spesso sono contrastanti e contraddittorie e, dunque, fonte di dolore e di anomia?
Per i credenti cristiani  la fonte sorgiva di questa comunione tra persone è la Trinità stessa, modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, Uno in Tre Persone (cf enciclica Sollicitudo rei socialis n. 40).

La Lubich non vede questo modello astratto o lontano. Esso, per mezzo e in Gesù, vuole e deve essere realizzato in terra fra gli uomini. 

Scrive: «E’ la vita della Santissima Trinità che dobbiamo cercare di imitare, amandoci fra noi, con l’amore effuso dallo Spirito nei nostri cuori, come il Padre e il Figlio si amano fra loro (…). Fin dagli inizi del Movimento (dei Focolari) ci hanno folgorato le parole di Gesù nella preghiera dell’unità: “Come tu Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi una cosa sola” (Gv 17, 2-21). E abbiamo capito che dovevamo amarci fino a consumarci in uno e ritrovare nell’uno la distinzione. Come Dio che, essendo Amore, è Uno e Trino» (Lectio in occasione del conferimento del dottorato honoris causa in teologia conferito dall’Università di Trnava [Slovacchia], 23.06.2003, Castelgandolfo [Roma], editrice Nové Mesto, Bratislava, p. 36).

Il filosofo e teologo Kluas Hemmerle, discepolo della Lubich, sottolinea e spiega questo rapporto, questa relazione tra divinità e umanità:

«Il mio tempo si fa tempo “totale” soltanto se è tempo “diviso”. Non nella realizzazione di un progetto fissato da me stesso per me, bensì nella disponibilità di andare verso te in maniera sempre nuova, di farmi uno con te in maniera sempre nuova, cresce in me la forma di vita che poi non è mia. Se l’essere in quanto tale è relazione e può riuscire a raggiungere l’identità permanente solo in questa relazione, allora la mia vita ha la sua unità solo nella relazionalità e nel reciproco scambio del vivere (…). Non è questione di essere assorbiti l’uno dall’altro, né di un soffocamento del dialogo nella monotonia. Io sono me stesso solo se vado oltre me, elevandomi verso il Tutto e l’Assoluto. Questo superamento del sé non è però aggiuntivo a quello che in me è il mio essere, ma anzi il mio essere si attua in me proprio nell’andare oltre me. (…) Vedere me in te, te in me e vedere tra noi quell’unica vita e quell’unico amore: questo è l’atto del nostro essere nel quale soltanto noi attuiamo la globalità della nostra vita e della nostra persona. Il “comandamento nuovo” (cf Gv 13,34) e il “Testamento” di Gesù (cf Gv 17,21-23), l’amore reciproco intessuto spiritualmente che ci rende capaci di diventare una cosa sola nella reciprocità come il Padre e il Figlio sono uno e proprio perché sono uno, caratterizzano non solo il nostro compito trinitario ma anche proprio il nostro essere personale, la nostra identità, l’unità in noi della nostra vita. Questa globalità si realizza non in quanto io sono uno con me stesso e successivamente intreccio relazioni, ma in quanto vado oltre me, mi faccio uno con te e in ciò mi riscopro nella relazionalità della comunione reciproca. Non dall’io al noi, ma dal noi all’io: questa è la “nuova via” dello Spirito»1.

L’identità di ognuno, per la Lubich, è la più forte che si possa pensare, è la perfezione perfezionabile del processo di umanizzazione: «E prendo contatto col Fuoco che invadendo tutta l’umanità mia donatami da Dio, mi fa altro Cristo, altro uomo-Dio per partecipazione, cosicché il mio umano si fonde col divino (…)». E nella Nota al testo aggiunge: «Gesù è la personalità vera, più profonda, di ognuno. Ogni uomo (ogni cristiano), infatti è più figlio di Dio (=altro Gesù) che figlio del suo padre (…)». Questa identità con il Cristo consegna ad ognuno la possibilità di superare la propria individualità chiusa, di essere “un uomo” per diventare “l’uomo”. In questa dinamica c’è il segreto di una totale anche se continua conquista di rimanere sempre sé e, allo stesso tempo, sempre in divenire.

Questa persona dunque non si chiude, anzi si schiude, si apre a tutti: «vedo e scopro la mia stessa Luce negli altri, la realtà vera di me, il mio vero io negli altri (magari sotterrato o segretamente camuffato per vergogna) e, ritrovata me stessa, mi riunisco a me risuscitandomi – Amore che è vita – nel fratello».

Ecco la relazione che è possibile e che si compie, perché è sostanziata d’amore, lo stesso Amore di Dio che si manifesta attraverso ognuno. E l’amore, per natura sua, come in Dio, non distrugge mai, è creativo, diffusivo e unitivo. Ma in modo alto: nel Cristo che si fa legame, relazione, presenza: «(…) vedo l’umanità con l’occhio di Dio che tutto crede perché è Amore». E ancora: «E’ Dio (Amore) che di due fa uno, ponendosi a terzo, come relazione di essi: Gesù fra noi» (“Dove due o più sono uniti nel mio nome io sono in mezzo ad essi” [Mt 18,20]).

La capacità di amare che ogni persona ha in sé diventa relazione, comunicazione.

Diceva il grande letterato russo Michail Bachtin: «L’essere dell’uomo è una comunicazione profonda. Essere significa comunicare. Essere significa essere per l’altro, e attraverso l’altro, per sé. Egli è integralmente e sempre su una frontiera: guardando dentro di sé, guarda negli occhi altrui. Non posso fare a meno dell’altro, non posso divenire me stesso senza l’altro».2

E Mounier: «La persona attraverso il movimento che la fa esistere, si esprime, cosicché è per natura comunicabile, ed è anzi la sola ad esserlo (…). Quando la comunicazione si allenta o si corrompe io perdo profondamente me stesso» (Il personalismo, Roma 1966, p. 49).

«Così l’amore circola e porta naturalmente (per la legge di comunione che v’è insita, come un fiume infuocato, ogni altra cosa che i due posseggono per rendere comuni i beni dello spirito e quelli materiali», così la Lubich. 

E’ proprio la reciprocità nella relazione che permette concretamente l’uguaglianza e la differenza, l’attuarsi della identità nella distinzione per arrivare all’unità.

Come è possibile che ciò si realizzi, che la relazionalità non sfoci nella esclusione reciproca?

La vera intersoggettività, come unità nella distinzione o nella differenza, è possibile quando si ha l’esperienza cognitiva ed affettiva profonda del proprio io e di quello dell’altro fino al punto di cogliersi e di cogliere gli altri come centri di essere autonomo, autocosciente, libero; uguale nella propria dignità e, nello stesso tempo diversi.

Diversità vuol dire anche consapevolezza che si ha qualcosa da offrire all’altro o all’insieme. Da qui tutta la dinamica e la necessità di saper prendere iniziative per dare impulsi nuovi all’unità e la prontezza nel perdere i propri eventuali “doni” se non fosse il momento appropriato per offrirli. Allora, non solo ognuno non è l’altro ma anche ognuno è se stesso solo attraverso l’altro.

La comunicazione dunque è essenziale e gli psicologi conoscono bene gli effetti patologici di una comunicazione insufficiente, bloccata, inesistente: «La vita è amore e se non circola non vive» scrive Chiara. Non solo, la comunicazione di sé ad Alter crea la società, la fa esistere in tutte le sue dimensioni ed espressioni.

Simmel, il grande sociologo tedesco, afferma che «la vita della società consiste nelle relazioni reciproche dei suoi elementi, relazioni reciproche che in parte si sviluppano in azioni momentanee ed in parte si consolidano in strutture definite: in uffici e leggi, ordinamenti e proprietà, lingue e mezzi di comunicazione. Tutti questi effetti sociali reciproci nascono dalla base di determinati interessi, scopi ed impulsi. Questi formano allo stesso tempo, la materia che si realizza socialmente nello stesso insieme degli individui l’uno accanto all’altro, l’uno per l’altro, e l’uno con l’altro» (Roma 1994).

Diciamo pure che l’intelaiatura della società, della comunità, è l’amore che porta all’unità, quell’amore di cui ogni essere umano è impastato3.

L’intuizione della Lubich la porta alla convinzione – sperimentata da lei e dal suo Movimento – che Gesù «è la Vita e la Vita completa. Non è solo un fatto religioso (...). E’ questo separarlo dalla vita intera dell’uomo una pratica eresia dei tempi presenti (…)». E in Nota spiega: «L’uomo in tutte le sue dimensioni e capacità umane – non va mortificato, ma elevato. Accanto ad una teologia rinnovata, “nuova” (basata sulla vita trinitaria vissuta nel Corpo mistico di Cristo) occorre anche una scienza nuova, una sociologia nuova, un’arte nuova, una politica nuova… nuove perché di Cristo, rinnovate dal Suo Spirito. Occorre aprire un nuovo umanesimo dove l’uomo è al centro, quest’uomo che è anzitutto Cristo, e Cristo negli uomini».

E in un’altra Nota: «E’ come altro Cristo, membra del suo Corpo mistico, che ogni uomo porta un contributo suo tipico in tutti i campi: nella scienza, nell’arte, nella politica (…)». La società che nasce dalle relazioni positive, piene di senso, armoniose e amorevoli, si costituisce e si dà istituzioni, strutture, leggi e cultura intrise di questo amore.

Le istituzioni possono diventare opportunità di relazioni non anonime e burocratiche ma sempre agapiche anche se con intensità diverse. Il segreto sta sempre nell’incontrare l’altro come persona (essere amato e amabile) e non come oggetto.

Il filosofo Ricoer si interroga su come introdurre l’elemento “istituzione” nella vita di relazione: «Introducendo – egli scrive – il concetto di istituzione introduco una relazione all’altro che non si lascia ricostruire sul modello dell’amicizia. L’altro è un vis-a-vis senza volto, il ciascuno di una distribuzione giusta. Non direi che la categoria del ciascuno è una persona distinta, ma che io non raggiungo che mediante i canali dell’istituzione».

Ricoer tenta di presentare in modo positivo il ruolo della mediazione istituzionale, tenendo in considerazione che il dialogo tra le persone sempre più spesso viene intrecciato da questa mediazione che è impersonale e nella quale i ruoli sono anonimi. E’ una sfida che solo l’agire agapico può vincere: trasformare la famosa “gabbia di acciaio” in una possibilità di allargare la vita relazionale. La burocrazia, le regole di convivenza sociale, le leggi che regolano la nostra esistenza, possono servire per stabilire rapporti indiretti ma reali e non virtuali, non formali, ma veri, in una parola: vivi.

Nasce anche una cultura nuova perché Chiara è convinta che solo chi ama conosce. E conosce non solo Dio, ma tutta le realtà creata, il cosmo, l’umanità. Il soggetto di questa conoscenza è nuovo, perché non è più il singolo, per quanto geniale possa essere, ma la comunità, i “più”, uniti nel nome di Cristo. Ed è il Cristo stesso in noi e fra noi il soggetto che ama e conosce e svela la verità.

La storia ha evidenziato tanti tipi d’uomo in sinergia con i contesti culturali sempre nuovi e in evoluzione: faber, oeconomicus, consumens, communitarius, sociologicus, politicus. La riscoperta della soggettività ha fatto parlare di homo psicologius. La complessità della modernità ha fatto esprimere a Cesareo l’homo civicus, che egli definisce come la persona nel suo compiuto realizzarsi come soggetto coinvolto in legami sociali (La libertà responsabile 2007).

La dottrina della Lubich indica che i tempi sono maturi per l’affermarsi dell’homo agapicus che già vive, magari ancora nei sotterranei, ma già innervando la storia, che unifica il meglio del processo evolutivo per sfociare in un modello antropologico qualitativamente superiore e sempre aperto a nuovi orizzonti e a nuove conquiste.

Ora è chiamata in causa anche la psicologia per sperimentare l’agire agapico nella maturazione di sé in relazione, anche nei traumi delle patologie. Ed è chiamata in causa anche la sociologia per riempire un vuoto colpevole del suo operare: analizzare e interpretare gli effetti dell’agire agapico sulla vita sociale. 


1 K. HEMMERLE., Partire dall’unità, Roma 1998, pp. 60-61.
2 Cit. in T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Torino 1992, p. VIII.
3 «Il peso ontologico dell’esperienza umana è la carica di amore di cui essa risulta suscettibile» (G. MARCEL, L
dignità umana e le sue matrici esistenziali, Torino 1983, p. 91). 
«L’amore impasta la creatura umana. Sotto questo aspetto possiamo ripetere: nasciamo amati, nasciamo innamorati.
L’amore si identifica con l’uomo, con il suo nucleo profondo, densissimo di tutta l’energia di cui egli è capace» (S. 
PALUMBIERI, Amo dunque sono, Milano 1999, p. 240). 

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