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In questo incontro ho pensato di provare a delimitare un aspetto dell’esperienza del nostro lavoro che produce degli effetti talvolta considerati singolari.


Serafina riferisce l’inizio della sua sofferenza ai 48 anni, quando per strada fu testimone di un incidente automobilistico. Si sentì chiamata a soccorrere quell’uomo e con lui è andata fino all’ospedale. Lì fu avvolta da un sentimento di stranezza, disorientamento, paura, angoscia ed un pensiero persecutorio.

Ha cominciato ad avere difficoltà per dormire. Qualche tempo dopo le sono apparse delle allucinazioni uditive verbali e deliri persecutori. “Mi perdevo per strada, senza sapere dove ero nè dove stavo andando. Mi sentivo persa, in cerca dell’altra parte di me stessa. Quest’altra parte dovevo trovarla a tutti i costi, dovevo trovarla”. “Mi dimenticavo di tutto e non riuscivo ad avere un orientamento”. “Le voci mi ordinavano di ammazzarmi oppure di ammazzare mio marito”.
Ha iniziato una cura psichiatrica. La diagnosi era di schizofrenia paranoide, curata con antipsicotici e ansiolitici. Da allora, essendo considerata invalida, fu costretta a lasciare il lavoro, limitandosi a svolgere i lavori casalinghi e a curare la nipotina che “è stata sempre molto difficile”. Riguardo alla sua storia pregressa, Serafina ha concluso le medie con difficoltà poiché non riusciva molto nello studio. Ha lavorato per alcuni anni come collaboratrice domestica, ha lavorato nel commercio, ma ha poi lasciato il lavoro per sposarsi; ha avuto una figlia, che ha abbandonato. Questa figlia ha avuto una bambina, pure lei abbandonata, e più tardi consegnata alle cure della sua nonna Serafina.
Dopo la prima crisi sono passati 7 anni, nei quali presentava quadri di instabilità, pur facendo uso delle medicine. In questo periodo Serafina mi cerca nel Centro di Salute dicendo: “Sono in lotta a morte con il demonio, che mi vuole uccidere”. “Le voci dicono tutto il tempo ciò che devo fare”... “In questa lotta con il demonio sono finita giù per le scale di casa mia ed ho rotto la gamba”. È andata infatti al Pronto Soccorso, ma ha deciso di non correggere la frattura nè di mettere il gesso, ha soltanto accettato di usare le stampelle. Si è così giustificata: “Così il demonio non crede di aver vinto”. Ha affermato che non sarebbe tornata dall’ortopedico, ma che sarebbe rimasta con noi lì, nella Laço, dove voleva fare la cura.
La Laço - Associazione di Appoggio Sociale - è un’entità non profit, fondata nel 2002, a partire da un intervento presso la comunità Aglomerado da Serra, nel Centro di Salute del Comune di Belo Horizonte, uno dei più grandi rioni poveri della capitale dello stato di Minas Gerais.
L’istituzione ha lo scopo di promuovere una rottura con il modello assistenzialista per affrontare il problema della sofferenza psichica e dell’esclusione; di proporre un lavoro di costruzione in co-responsabilità, che stimoli l’interrelazione. Oltre la cura clinica, l’istituzione offre attività che promuovono formazione, capacità e reddito. La Laço permette l’inclusione a partire dal lavoro dei suoi partecipanti e, con base nella capacità di ognuno, cerca la risposta al loro progetto di vita.
Il progetto è aperto a tutta la comunità, senza tutela o protezionismo degli utenti, permettendo la diminuzione dello stigma sociale. Ogni partecipante deve diventare un collaboratore e non solamente un beneficiato. Le persone ricevono le cure tramite un sistema di scambio, e queste avvengono nelle forme più varie, con poesie, aneddoti, storie, ricette, musiche, servizi ed altro.
Una delle premesse del lavoro può essere tradotta dalla frase di uno dei nostri pazienti: “La Laço è nata dal nostro sogno di vincere, ma ognuno deve donare qualcosa di sé”.
“Durante 4 anni, Serafina ha collaborato nella Laço come cantante nel laboratorio di musica e teatro, nella pulizia e nella preparazione della merenda per i “colleghi”: ‘La Laço è mia; quando abbiamo una casa la curiamo, non lasciamo niente fuori posto’.”
Quando ha cominciato la sua cura nella Laço, Serafina voleva separarsi dal marito e abbandonare la sua nipote consegnandola ad una istituzione. Ho suggerito che attendesse un po’ e contasse sull’aiuto delle persone della comunità finché le sue condizioni psichiche fossero migliorate, per poi prendere una decisione.
Intanto, Serafina seguiva ogni mese i compleanni del personale. In un’occasione lei ha preparato una festa per uno dei nostri psicologi. Dapprima si è rivolta al direttore del Parque das Mangabeiras, dove si trova la sede della Laço, assieme ad altri pazienti psicotici, ed ha sollecitato l’autorizzazione per entrare lì col pullmino, con l’altoparlante suonando “tanti auguri”. Il direttore ha chiesto se erano matti, giacché quel parco è una riserva e non sono permesse manifestazioni del genere. Lei non si è lasciata vincere; ha cercato un’associazione della comunità, ha invitato un coro di bambini della favela per fare una sorpresa e festeggiare con i pazienti il compleanno del volontario. Ha comprato salatini e dolci e li ha portati per tutti i pazienti e tecnici dell’ONG. Quando ho cercato di capire se la Laço potesse aiutare a partecipare alle spese, lei ha rifiutato dicendomi: Dra. Inês, anche i poveri sanno riconoscere i propri debiti.
Queste feste si sono ripetute spesse volte nelle forme più varie. In esse, Serafina invitava i pazienti a farsi conoscere tramite la musica, le parole, le poesie.
Serafina, assieme ad altri pazienti psicotici, si è proposta a presentare musiche e storie per i bambini di una scuola pubblica della comunità. Il programma ha avuto una ripercussione interessante. I pazienti, infine, hanno composto un coro insieme a questi bambini.
Nel 2006 Serafina si è sottoposta alla visita medica per ottenere l’invalidità. È stata ricevuta da un medico generalista, che ha creduto trattarsi di un caso di nevrosi stabilizzata. Le ha detto che non aveva il diritto di ricevere la pensione dal governo giacché era una persona sana, che poteva perfettamente riprendere il lavoro. Ha preso la sua ricetta e l’ha buttata nella spazzatura. Serafina non è più ritornata nella Laço.
Dopo un po’ di tempo ha scritto una lettera a me e un’altra ai pazienti, ringraziando per il trattamento e la terapia ricevuta, congedandosi e annunziando una nuova vita.
Quando le ho telefonato per sapere cosa era successo, lei mi dice: “Dra. Inês, ho solo da ringraziarla perché sono guarita! Il medico mi ha detto proprio questo. È stato Dio a dirlo tramite lui. Non sono state le medicine a guarirmi. Pur sembrando qualcosa di strano, lavare, raccogliere la carta, fare il caffé e offrirlo ai colleghi, cantare, presentare le canzoni ai bambini, tutto questo non e’ una sciocchezza. Bisogna che le persone sappiano che questo contiene un valore. Quando tutto ciò avviene, in certo modo la persona sa ‘chi è’. Il ruolo della Laço è farci credere. Dopo 4 anni di questa esperienza sono guarita”.
Dopo un anno e mezzo, trenta giorni fa, ho telefonato a Serafina. Le ho parlato del mio desiderio di discutere il caso clinico con altri colleghi. Lei mi ha risposto affermativamente, dicendo di esserne felice. Le ho chiesto se poteva parlarne alla giornata.
Ha raccontato di trovarsi bene, di non aver più bisogno dei farmaci, neanche del diazepam per dormire la notte. Si prende cura della casa, della sua nipote, accompagna alcune persone malate della favela portando loro le medicine, aiutando nelle cure con l’igiene e l’alimentazione. Inoltre, prega insieme a questi malati. “Le persone riconoscono
in me delle possibilità, loro dicono che riesco ad aiutarle, pure con la preghiera. Io accetto e valorizzo. Sto facendo tante cose e non ho tempo per fermarmi. Non sono ritornata alla Laço perché non mi considero più una paziente”.
Questa storia mi suscita una domanda: Secondo Serafina, la sua  stabilizzazione è avvenuta in un modo che non considera sciocchezza, nel periodo di quattro anni nella Laço, pur essendo abitata da un inferno di voci. Di che cosa lei stava parlando?
Vorrei provare ad elaborare maggiormente questo “donare qualcosa di se stessi” nella pratica dell’istituzione. Il “donare” nel senso comune può essere inteso sotto vari aspetti. Sappiamo che la cura, spesso, si associa alla necessità di una retribuzione.
Lacan commenta che “il denaro non serve semplicemente per comperare oggetti (funzione di scambio), ma ha la funzione di ridurre un supposto debito. Più avanti egli continua: la retribuzione “può essere pure una forma di responsabilizzazione, ‘rispondere per’”. “Abbiamo da trattare proprio con questo, tutti i giorni, ogni volta che la linea dei
simboli si riscontra con ostacoli terminali, sono i nostri atti che ci vengono incontro... Si tratta di rendere conto dei propri atti – il che vuol dire, poi, che se sapranno rendere conto di essi non saranno castigati”.
Secondo Lacan, “dalla parte del terapista oppure dell’analista c’è qualcosa che potremo chiamare: un investimento di capitale (suo o del paziente) in una “impresa comune”, e “il paziente non è l’unico a trovarsi in difficoltà per entrare con la sua quota”.
Anche l’analista deve pagare con parole, con la sua persona che offre un supporto, con ciò che ha di essenziale nel suo giudizio più intimo”.
Ma, infine, come il “donare qualcosa di se stessi” opera nel contesto della cura di Serafina e degli altri pazienti della Laço?
Oltre a prendere i soldi come mediatore, o del semplice scambio – “dai e prendi” - constatiamo che questo dispositivo produce altri effetti citati dai partecipanti, come:
- “i nostri incontri sono momenti gradevoli che costituiscono, ogni volta, una nuova
nascita” (Adriana – paziente)
- “La Laço è la nostra patria” (Milton – paziente della Laço)
- Quando vengo qui sento che sono viva” (Adriana – paziente)
È importante diversificare il donare che vivifica da quello che mantiene l’altro in un posto di vittima, che non promuove la dignità, toglie la responsabilità, rafforza le nostre difficoltà di scommettere nelle possibilità dell’altro. Spesso constatiamo gli effetti funesti di
quello che chiamiamo assistenzialismo... Nella Laço facciamo uno sforzo continuo affinché questi equivoci non distruggano i miglioramenti clinici.
Mi sembra che il sistema di scambio fa sì che gli oggetti, una volta messi in circolazione, vengano scoperti e aprano la dimensione del beneficio agli altri. Gli oggetti possono servire per il legame sociale. Tra gli oggetti c’è il sapere, che fa parte dello
psicotico: non solo un saper fare, ma un saper inventare.
Cambiare il posto dove siamo con il posto dove siamo insieme!!! Un posto che fa funzionare altri posti, e che produce i suoi effetti anche nella carenza.
Come dice uno dei pazienti: “nella Laço siamo quello che doniamo”.
“Se non lo facciamo saremo al tempo stesso oppressori ed oppressi (soprattutto verso noi stessi), giacché qualsiasi partecipazione tramite i diritti, doveri ed emancipazioni, trova risonanza soltanto in questo modo”. (João Evangelista – paziente della Laço)

Ines Juliao

LACO – Associazione di Appoggio Sociale Brasile

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