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Parliamo di una capacità importante per il benessere delle relazioni familiari. Non sempre però riusciamo a immergerci nell’esperienza dell’altro e a comprenderla pienamente.

Quali sono le condizioni che favoriscono questa dinamica?

Quante volte accade, anche in famiglia, di non sentirsi capiti dall’altro, di notare che le nostre parole o il nostro comportamento sono stati fraintesi? È un’esperienza che di solito comporta un certo disagio fino a scatenare, in alcuni casi, sentimenti intensi di solitudine e/o di rabbia. È in quei momenti che capiamo quanto sia importante quella cosa chiamata empatia.

Cos’è esattamente l’empatia e perché è così importante?

L’empatia è la capacità di immergersi nel vissuto dell’altro, di sentirlo pienamente, rimanendo al tempo stesso consapevoli della propria esperienza. Nel corso dell’evoluzione della specie, ad un certo punto, grazie allo sviluppo delle aree neo-corticali, che corrispondono allo strato più esterno della nostra corteccia cerebrale, è comparsa la dimensione dell’intersoggettività, cioè la capacità di percepire l’altro essere umano come dotato di pensieri, emozioni, stati d’animo, esattamente come noi.

Questa capacità compare molto presto nel corso dello sviluppo.

Inizialmente, il bambino percepisce il clima emotivo che si respira in famiglia e ne è inconsapevolmente influenzato: se vede un’espressione spaventata comincia a piangere, se vede un sorriso o sente un contatto affettuoso sorride a sua volta. Gradualmente con lo sviluppo del linguaggio la capacità di interpretare la mente e le emozioni dell’altro diventa più raffinata e complessa. Se la mamma sorride è perché si sente felice, se mi abbraccia vuol dire che mi vuole bene. Riusciamo ad attribuire un’intenzionalità all’altro in virtù del fatto che lo consideriamo simile a noi, con pensieri, emozioni, sentimenti simili a quelli che sperimentiamo noi. Tuttavia la comprensione dell’altro non passa solo da un canale consapevole e razionale, essa avviene in gran parte in maniera implicita, automatica.

A questo proposito, la scoperta dei “neuroni specchio” grazie al lavoro di un gruppo di ricerca di Parma, in particolare di Rizzolatti e Gallese, ha favorito una maggiore comprensione del processo che permette l’empatia. Nel nostro cervello esiste infatti un gruppo di neuroni che si attiva sia quando eseguiamo determinate azioni, sia quando osserviamo un’altra persona che esegue quelle stesse azioni, come se le stessimo simulando nel nostro cervello. Si ritiene che un meccanismo simile possa avvenire quando si osserva l’espressione facciale di un‘altra persona. Mentre guardo l’altro che sta provando un’emozione, si attiva in me uno stato corporeo coerente ad essa, si attivano ad esempio i muscoli facciali coinvolti nell’espressione dell’emozione che sto osservando. Si tratta di una “simulazione incarnata” l’emozione è ricostruita, esperita e quindi può essere compresa mediante l’attivazione di un meccanismo cerebrale condiviso da entrambi.

Se l’empatia è un processo così naturale e automatico per noi esseri umani, perché non sempre si riesce ad essere empatici, cioè a comprendere realmente l’altro?

Perché l’empatia si attivi sono necessarie alcune condizioni:

Dare attenzione piena. Se siamo troppo coinvolti da ciò che stiamo provando in un dato momento, è molto difficile immergersi nell’esperienza dell’altro. Cosa fare dunque? Prendersi una pausa per notare quali emozioni e pensieri si stanno muovendo dentro di noi, e riappacificarci con essi. Poi dilatare l’attenzione fino ad abbracciare anche la prospettiva dell’altro. Questo ci permette di conservare una piena consapevolezza di noi mentre entriamo in contatto con l’esperienza altrui. Non si tratta dunque di zittire quello che io provo per ascoltare chi mi sta vicino, ma di allargare l’orizzonte della consapevolezza, lasciando i miei stati d’animo sullo sfondo mentre mi concentro sull’altro.

Stare nel presente. Per entrare realmente in contatto con l’altro è necessario condividere un tempo e uno spazio. È importante dunque, per quanto possibile non andare avanti e indietro nel tempo con la nostra mente, ma fermarsi. Entrare in contatto con la pienezza dell’esperienza. Non ascoltare l’altra persona col pilota automatico, annuendo distrattamente, mentre pensiamo a cosa faremo o diremo tra poco. Stare nel presente vuol dire anche lasciare da parte smartphone, televisori e tutto ciò che può allontanarci dal “qui ed ora”. Solo in questo modo l’altro può sentire che la mia presenza è completa, in quanto coinvolge tutte le parti di me, il corpo, la mente, le emozioni, i valori.


Ascoltare e parlare al di là delle parole. L’empatia è un processo incarnato, oggi la vita che conduciamo ci porta ad essere iper-razionali, rimanendo imprigionati nelle nostre menti. Ascoltare i segnali del corpo e lasciare che esso esprima la propria partecipazione emotiva è una risorsa preziosa. Nella coppia o nel dialogo con i figli un aspetto che può fare la differenza è il contatto corporeo: abbracciarsi, tenersi la mano, stare vicini ci fa sentire più al sicuro e permette ai processi empatici di attivarsi pienamente. Altrettanto importanti sono gli aspetti para-verbali, il tono e il ritmo della voce. Quando parliamo velocemente o a voce alta, spesso causiamo nell’altro un innalzamento dell’arousal (reattività del sistema nervoso), attivando così il sistema di allarme che ci difende dai pericoli. Questo ostacola l’empatia, in quanto l’organismo è impegnato a programmare una risposta di lotta o fuga. Quando, al contrario, usiamo un ritmo più lento e un tono di voce più basso, al nostro cervello arriva un segnale di sicurezza, che gli permette di lavorare al meglio, in modo più integrato, e le diverse aree di cui è composto si mettono in comunicazione tra loro.
L’importanza delle dimensioni non verbali è stata al centro degli studi di Colwyn Threvarthen, psicologo infantile e psicobiologo dell’Università di Edimburgo. Egli in particolare ha approfondito il ruolo della “musicalità comunicativa”, sottolineando l’importanza del ritmo e delle emozioni nella comunicazione e nel gioco con i bambini. Secondo Threvarthen, le «regolazioni affettive della crescita» che avvengono nel contesto della relazione genitore-bambino, grazie all’interazione tra «menti reciprocamente sensibili», sono fondamentali e promuovono lo sviluppo dei circuiti cerebrali. Alleniamo dunque questa sensibilità della mente e del corpo che ci aiuta non solo a creare relazioni affettive più soddisfacenti, ma anche a favorire uno sviluppo più sano nei bambini e non solo.

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